Le Storie

Durante la seconda guerra mondiale, il Palazzo di città di Contrà San Faustino è andato distrutto da un bombardamento e così, oltre al grande soffitto di Tiepolo, è scomparso anche l'intero archivio di famiglia. Quindi queste sono le storie sopravvissute grazie alla tradizione orale, tramandate negli anni da una generazione all'altra di Valmarana.
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La storia degli Zecchini

Giustino Valmarana nel 1757 chiamò Giambattista Tiepolo che già aveva lavorato per lui nel salone da ballo del palazzo di città. Giambattista arrivò con il figlio Giandomenico e una schiera di aiutanti – si dice che gli affreschi furono completati in appena 4 mesi!

Ma Giustino morì nel giugno 1757, lasciando eredi i due figli, Antonio Cristoforo e Gaetano... e Tiepolo non si fidò! Udendo della morte di Giustino lasciò subito la Villa con gli affreschi incompiuti, temendo che i figli non sarebbero stati generosi come il padre. Ma l'apertura del testamento – che prevedeva una grande somma di zecchini d'oro come saldo a Giambattista – fece subito tornare gli artisti per finire l'opera.

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La storia delle date

Fino alla fine dell’ ‘800 era convinzione comune che tutti gli affreschi di Palazzina e Foresteria fossero del solo Giambattista. Questo equivoco si deve alla data scritta nella bandierina a sinistra dell'affresco del Mondo Novo nella Foresteria: per anni si è letta come 1737, ma se così fosse stato Giandomenico, che era nato nel 1727, avrebbe avuto solo 10 anni. Fu solo dopo la guerra che lo storico dell’arte Antonio Morassi intuì che quel 3 aveva un taglietto anche verso destra, rivelandosi così un 5 e consentendo definitivamente di attribuire a Giandomenico la paternità dell'opera."

 

L'angoscia del petto di pollo

Angelo e Paolo Valmarana, figli del senatore Giustino assieme alla madre, Amalia Spingardi in un ritratto del 1934 circa.

“Ho trascorso la mia infanzia nell’angoscia del petto di pollo... In tavola arrivava quasi sempre, direi almeno trecento giorni l’anno, carne di pollo. Per il macellaio soldi non ce n’erano e invece i polli venivano dalla campagna, non venivano pagati ed erano parte integrante dell’affitto. Che prevedeva pochi denari e molti beni in natura, appunto i polli, qualche faraona, il maiale una volta l’anno, il burro e le uova, che in un passato non lontanissimo una vigile nonna misurava con un suo cerchietto di fil di ferro per controllare che il diametro non fosse troppo misero. Polli e il resto andavano sotto il nome di “onoranze” che significa, ovviamente, omaggio, onore reso dal contadino al padrone.
L’odio per il pollo era fortissimo e si attenuava, non di molto, riuscendo ad impadronirsi del petto. In famiglia eravamo in quattro, mia madre, mio padre, mio fratello Angelo ed io. In questo caso il problema del petto di pollo non si poneva. Mia madre mangiava coscia, mai seppi se per vocazione o per amore materno, mio padre groppa e collo con testa e cresta; e noi a girare gli occhi per non riconoscere sul piatto paterno la fisionomia pur raggricciata dell’odiato volatile. Il petto era tagliato in due, uno per Angelo e uno per me. Accadeva però spesso che a tavola ci fosse un quinto, vecchio amico di casa o lontano parente che aveva scelto la vita solitaria e subìto la povertà ma che al lavoro, ignoto da generazioni, mai si era piegato; era servito ovviamente per secondo, dopo mia madre. Dell’eventuale, e frequente, loro scelta del petto, Angelo, mio fratello…

Angelo e Paolo Valmarana, figli del senatore Giustino assieme alla madre, Amalia Spingardi in un ritratto del 1934 circa.

“Ho trascorso la mia infanzia nell’angoscia del petto di pollo... In tavola arrivava quasi sempre, direi almeno trecento giorni l’anno, carne di pollo. Per il macellaio soldi non ce n’erano e invece i polli venivano dalla campagna, non venivano pagati ed erano parte integrante dell’affitto. Che prevedeva pochi denari e molti beni in natura, appunto i polli, qualche faraona, il maiale una volta l’anno, il burro e le uova, che in un passato non lontanissimo una vigile nonna misurava con un suo cerchietto di fil di ferro per controllare che il diametro non fosse troppo misero. Polli e il resto andavano sotto il nome di “onoranze” che significa, ovviamente, omaggio, onore reso dal contadino al padrone.
L’odio per il pollo era fortissimo e si attenuava, non di molto, riuscendo ad impadronirsi del petto. In famiglia eravamo in quattro, mia madre, mio padre, mio fratello Angelo ed io. In questo caso il problema del petto di pollo non si poneva. Mia madre mangiava coscia, mai seppi se per vocazione o per amore materno, mio padre groppa e collo con testa e cresta; e noi a girare gli occhi per non riconoscere sul piatto paterno la fisionomia pur raggricciata dell’odiato volatile. Il petto era tagliato in due, uno per Angelo e uno per me. Accadeva però spesso che a tavola ci fosse un quinto, vecchio amico di casa o lontano parente che aveva scelto la vita solitaria e subìto la povertà ma che al lavoro, ignoto da generazioni, mai si era piegato; era servito ovviamente per secondo, dopo mia madre. Dell’eventuale, e frequente, loro scelta del petto, Angelo, mio fratello maggiore e servito prima di me, nulla aveva da temere ma io ero spesso perduto.
L’ipotesi di non prendere un altro prezzo era esclusa dagli obblighi della buona educazione, lasciarlo sul piatto era vietato. Ne facevo pezzettini piccolissimi sperando di smarrirne la consistenza e sapore con l’annegarli nel contorno ma l’illusione era breve anche se mai rinunciata e quel pollo che non era petto mi restata in gola nei secoli avvenire.
... sono sicuro che questi ricordi della nostra tavola monotona e silenziosa sono vicini, per quel che arrivava, alle colazioni e ai pranzi delle generazioni che mi hanno preceduto. Certo, al posto della vecchia cameriera malpagata o non pagata affatto e della cuoca che stava in cucina c’erano almeno dieci persone di servizio, e quelle sicuramente non pagate se non con vitto, alloggio e qualche regalo. Al mio tavolo di bambino tutto era ancora di lino, ma liso e spaiato, e con le macchie che crescevano fino alla domenica; i bicchieri tozzi e qualsiasi e i piatti in ceramica di Nove, tutti sbeccati. E prima, invece, le tovaglie di lino erano immense e immacolate e la loro superficie ricamata superava di gran lunga quella in cui l’ago non si era mai posato. I vassoi di portata erano sempre d’argento massiccio, col cordolo del Sanmarco, i bicchieri di Boemia, una sfilza di posate; i piatti, di cui è rimasto qualche malinconico superstite, erano di porcellana, col bordo blu, il filetto d’oro e lo stemma di casa che troneggiava nel mezzo. La tavola era imbandita per molte persone...
Raccontava mio padre... che il sogno di mio nonno era fare un viaggio a Roma ma che i soldi per il treno e per l’albergo non riuscì a trovarli mai e si consolava dicendo che non doveva poi essere un gran che. Rimase sempre a Vicenza e tutta la sua vita, nella villa, che però resta fra le più belle del mondo, a mangiare pollo e fegatini sotto gli affreschi".


Da: Paolo Valmarana, Amare il cinema nel 1952, Ed. Sipiel - Milano   

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La storia dei poveri

... il papà e la mamma, i poveri loro clienti, li visitavano ogni autunno. ..Cinquant’anni fa, nessuno di loro aveva un letto ma soltanto cavalletti con tavole e “paioni”. La verza cruda e tagliata sottile la condivano con il solo aceto, a comprarsi l’olio non arrivavano. I polli allevati in casa li mangiavano poche volte all’anno: potete immaginare con quanto entusiasmo li portavano a titolo di onoranze o regalie o appendici al proprietario della terra, salvo doverli portare indietro perché non erano abbastanza grassi! E si avvicinava intanto S. Martino e allora i miei genitori (ed era un certo onere che pesava, perché terreno ne avevamo tanto ma denaro poco) facevano gli acquisti di quel numero di vestiario e zoccoli e lenzuola e coperte che reputavano necessario per i loro beneficati (i poveri iscritti nel loro modesto ma generoso registro con qualche variazione in più, taluna in meno: i morti).

... Voglio finire questi miei ricordi con la cerimonia del giorno dei morti. In quel giorno nella grande cucina di Lonedo sul focolare si cocevano de pignatte grandi da distribuire ai poveri: gli scapoli e i solitari la mangiavano seduti sulla muretta del portone di ingresso, o se pioveva, sotto il porteghetto. Ciascuno si portava la scodella (la nobile famiglia non forniva le stoviglie, tutt’al più i cucchiai e al personale di servizio seccava lavarli perché servire i padroni non è piacevole ma è usanza, ma fare “i comodi a un più poaretto de mi” non era compreso nel salario). Gli altri, quelli con famiglia, venivano con pignatta per portare a casa il minestrone: non sembra oggi credibile che si facessero allora alcuni e talvolta parecchi chilometri per un beneficio…

... il papà e la mamma, i poveri loro clienti, li visitavano ogni autunno. ..Cinquant’anni fa, nessuno di loro aveva un letto ma soltanto cavalletti con tavole e “paioni”. La verza cruda e tagliata sottile la condivano con il solo aceto, a comprarsi l’olio non arrivavano. I polli allevati in casa li mangiavano poche volte all’anno: potete immaginare con quanto entusiasmo li portavano a titolo di onoranze o regalie o appendici al proprietario della terra, salvo doverli portare indietro perché non erano abbastanza grassi! E si avvicinava intanto S. Martino e allora i miei genitori (ed era un certo onere che pesava, perché terreno ne avevamo tanto ma denaro poco) facevano gli acquisti di quel numero di vestiario e zoccoli e lenzuola e coperte che reputavano necessario per i loro beneficati (i poveri iscritti nel loro modesto ma generoso registro con qualche variazione in più, taluna in meno: i morti).

... Voglio finire questi miei ricordi con la cerimonia del giorno dei morti. In quel giorno nella grande cucina di Lonedo sul focolare si cocevano de pignatte grandi da distribuire ai poveri: gli scapoli e i solitari la mangiavano seduti sulla muretta del portone di ingresso, o se pioveva, sotto il porteghetto. Ciascuno si portava la scodella (la nobile famiglia non forniva le stoviglie, tutt’al più i cucchiai e al personale di servizio seccava lavarli perché servire i padroni non è piacevole ma è usanza, ma fare “i comodi a un più poaretto de mi” non era compreso nel salario). Gli altri, quelli con famiglia, venivano con pignatta per portare a casa il minestrone: non sembra oggi credibile che si facessero allora alcuni e talvolta parecchi chilometri per un beneficio così modesto. Modesto, si ma era dato col cuore (ricordo la mamma che andava ad assaggiarlo dopo aver predisposto tutti gli ingredienti e che ci fosse tanta cotica: era forse l’unica carne che avrebbero mangiato). Era dato col cuore ed era ricevuto con riconoscenza, vorrei dire con benevolenza: sentivano che per i Valmarana ricordare i loro morti così costituiva una consolazione.

Da: Giustino Valmarana Ieri  Ed. del Ruzzante
(foto: Villa Godi Valmarana a Lonedo)