Angelo and Paolo Valmarana, sons of Senator Giustino together with their mother Amalia Spingardi in a portrait of approx 1934.
It is a marvellous story, about Paolo's anxiety of not being able to get chicken brest if there were guests; it is also a way to recount the life of those years in the magnificent Villa Valmarana.
“Ho trascorso la mia infanzia nell’angoscia del petto di pollo... In tavola arrivava quasi sempre, direi almeno trecento giorni l’anno, carne di pollo. Per il macellaio soldi non ce n’erano e invece i polli venivano dalla campagna, non venivano pagati ed erano parte integrante dell’affitto. Che prevedeva pochi denari e molti beni in natura, appunto i polli, qualche faraona, il maiale una volta l’anno, il burro e le uova, che in un passato non lontanissimo una vigile nonna misurava con un suo cerchietto di fil di ferro per controllare che il diametro non fosse troppo misero. Polli e il resto andavano sotto il nome di “onoranze” che significa, ovviamente, omaggio, onore reso dal contadino al padrone.
L’odio per il pollo era fortissimo e si attenuava, non di molto, riuscendo ad impadronirsi del petto. In famiglia eravamo in quattro, mia madre, mio padre, mio fratello Angelo ed io. In questo caso il problema del petto di pollo non si poneva. Mia madre mangiava coscia, mai seppi se per vocazione o per amore materno, mio padre groppa e collo con testa e cresta; e noi a girare gli occhi per non riconoscere sul piatto paterno la fisionomia pur raggricciata dell’odiato volatile. Il petto era tagliato in due, uno per Angelo e uno per me. Accadeva però spesso che a tavola ci fosse un quinto, vecchio amico di casa o lontano parente che aveva scelto la vita solitaria e subìto la povertà ma che al lavoro, ignoto da generazioni, mai si era piegato; era servito ovviamente per secondo, dopo mia madre. Dell’eventuale, e frequente, loro scelta del petto, Angelo, mio fratello maggiore e servito prima di me, nulla aveva da temere ma io ero spesso perduto.
L’ipotesi di non prendere un altro prezzo era esclusa dagli obblighi della buona educazione, lasciarlo sul piatto era vietato. Ne facevo pezzettini piccolissimi sperando di smarrirne la consistenza e sapore con l’annegarli nel contorno ma l’illusione era breve anche se mai rinunciata e quel pollo che non era petto mi restata in gola nei secoli avvenire.
... sono sicuro che questi ricordi della nostra tavola monotona e silenziosa sono vicini, per quel che arrivava, alle colazioni e ai pranzi delle generazioni che mi hanno preceduto. Certo, al posto della vecchia cameriera malpagata o non pagata affatto e della cuoca che stava in cucina c’erano almeno dieci persone di servizio, e quelle sicuramente non pagate se non con vitto, alloggio e qualche regalo. Al mio tavolo di bambino tutto era ancora di lino, ma liso e spaiato, e con le macchie che crescevano fino alla domenica; i bicchieri tozzi e qualsiasi e i piatti in ceramica di Nove, tutti sbeccati. E prima, invece, le tovaglie di lino erano immense e immacolate e la loro superficie ricamata superava di gran lunga quella in cui l’ago non si era mai posato. I vassoi di portata erano sempre d’argento massiccio, col cordolo del Sanmarco, i bicchieri di Boemia, una sfilza di posate; i piatti, di cui è rimasto qualche malinconico superstite, erano di porcellana, col bordo blu, il filetto d’oro e lo stemma di casa che troneggiava nel mezzo. La tavola era imbandita per molte persone...
Raccontava mio padre... che il sogno di mio nonno era fare un viaggio a Roma ma che i soldi per il treno e per l’albergo non riuscì a trovarli mai e si consolava dicendo che non doveva poi essere un gran che. Rimase sempre a Vicenza e tutta la sua vita, nella villa, che però resta fra le più belle del mondo, a mangiare pollo e fegatini sotto gli affreschi".
Da: Paolo Valmarana, Amare il cinema nel 1952, Ed. Sipiel - Milano